(racconto scritto durante il Week-end da scrittori del 2 giugno 2025)
Siamo a Caiazzo. Pensavo che la salita non sarebbe finita mai. Invece, ecco la piazza. Solo che non so se è qui che dovevamo arrivare. Temo di essermi perduto. In lontananza, vedo delle panchine, almeno potremo sederci. Lui continua a fare un passo dopo l’altro, a occhi bassi, non mi chiama, non si lamenta, non mi dice che ha freddo. Eppure fa freddo, altroché; e il vento spazza la strada con furia, fa oscillare le luci fin quasi a staccarle dai lampioni, si spinge sotto al cappotto, ogni lembo è buono per infilarsi. Lui non dice neanche una parola; non una, da quando siamo partiti. Ha una compostezza che non ti aspetti da un bambino di otto anni; non di fronte a una fatica come questa. Non immagino come possa sentirsi, dopo tutto il cammino fatto. A me il dolore ormai è arrivato alle spalle. All’inizio – eravamo ancora a Caserta – mi facevano male solo i piedi. Pian piano il dolore è salito alle caviglie, ai polpacci; poi alle anche, e lì ho temuto di perdere qualche passo e rovinare a terra. Dopo un po’ mi sono abituato – a tutto ci si rassegna, a tutto – e ho smesso di pensarci. È curioso: certe volte, se smetti di pensarci, non ti fa male più. Siamo andati avanti. Lui ha continuato a non dire niente per tutto il tempo, anche quando gli ho chiesto se voleva riposarsi. Ho pensato che forse quello era il suo modo per combattere il freddo: risparmiare il fiato per trattenere il calore con sé. Furbo. È proprio vero che i piccoli sanno sempre come stupirci.
La panchina, finalmente. Non mi ci siedo, no: praticamente ci finisco su, con tutto il peso del corpo. So che è un sollievo effimero: probabilmente abbiamo ancora un bel pezzo da fare su per la collina, fino a San Giovanni e Paolo. Di fronte, l’insegna di un bar; sono così stanco che la vedo solo ora. Penso subito che starcene al riparo dalla notte per qualche minuto a bere qualcosa di caldo, prima di rimetterci in marcia, ci farà bene.
Lo prendo per mano, attraversiamo la strada. Dentro le luci sono fioche e non è accogliente come mi aspettavo; è come se il freddo che sentivo in strada me lo stessi portando dentro di me. Che stupidaggine, penso. Ordino subito una grappa: ho bisogno di riscaldarmi. Per lui chiedo una cioccolata in tazza. Sento gli sguardi dei pochi avventori concentrarsi su di me. Lo so che stanno pensando: uno della mia età che si porta dietro un bambino non dovrebbe bere alcolici. Sempre pronti a giudicare. Ma che ne sanno loro. Loro certo non lo sentono il freddo che sento io.
«Non la facciamo» dice l’uomo dietro al bancone, asciugandosi le mani con uno straccio a scacchi. È troppo buio per vederlo bene in faccia.
«La cioccolata? – chiedo. – Non la fate?» Ma quello nemmeno mi risponde, occupato com’è a rabboccare il calice a un paio di ceffi dall’altra parte del locale.
Lui non mi chiede niente – e sì, lo ammetto: non sono mai stato il padre migliore del mondo, tanto meno stasera; però la domanda «La cioccolata non c’è. Che cosa posso prenderti?» gliela faccio lo stesso, anche se già so che non risponderà, è quello che ha fatto finora, da quando siamo usciti di casa. Infatti non è la sua risposta che mi arriva, ma il commento di un tizio alle mie spalle che dice a quello seduto al tavolo con lui:
«Eccone un’altro».
Vorrei girarmi di scatto e dirgli di ripetere e poi dargliene fino a che non smette di cianciare; così imparerebbe a parlare – ma no, che dico: quelli come lui a parlare non imparano mai – ma almeno imparerebbe a stare zitto, a chiudere quella bocca che deve sapere di birra e aglio e tabacco masticato, di fronte a uno che non conosce e che potrebbe essere chiunque – e se fosse un assassino? Uno che può uccidere, perché no?, per un nonnulla. O uno che ha già ucciso e non aspetta che una scusa abbastanza buona per rifarlo. Ma non sono pensieri che posso permettermi in questo momento: devo prendermi cura di lui, del mio bambino.
«Scusi – faccio al barista. Non gli sono simpatico, è chiaro, devo chiamarlo tre volte prima che si giri. La cosa è reciproca, in ogni caso, non so se questo può consolarlo. Purtroppo, a me non mi consola. – Stiamo andando alla comunità di San Giovanni e Paolo. Ma credo che ci siamo persi».
Vedo il suo sguardo trasformarsi sotto il mio. Non riesco a decifrarlo.
«Perché mi guarda così?» gli dico.
Mi fissa in silenzio per qualche secondo; non come se non sapesse cosa rispondere, più come se, al contrario, stesse facendo uno sforzo per trattenersi dal dirmi quello che pensa. Come se stesse cercando le parole giuste. Senza trovarle.
«A San Giovanni e Paolo si viene solo per due motivi – dice poi: – o per l’illuminazione, o per l’espiazione». La sua pronuncia è impeccabile, come di uno che è abituato a maneggiare quelle parole al pari delle bottiglie da cui versa ogni sera. Non capisco che voglia dire: per quanto ne so, potrebbe anche non avercela con me.
«Dobbiamo continuare a salire?» gli faccio. Quello scuote la testa, a occhi bassi, continuando ad asciugare un bicchiere con lo stesso straccio di prima.
«Se vuole andare a San Giovanni e Paolo, deve solo rimettersi in cammino». Non è stato lui a rispondermi, ma una voce alle mie spalle: è un tizio, in un angolo, che indossa vestiti logori e ha una barba lunghissima e sporca che non sembra essere stata mai tagliata né lavata.
«Che significa?» gli dico, voltandomi, sperando che quest’atmosfera claustrofobica e rarefatta, che comincia a inquietarmi, non stia spaventando il bambino.
L’uomo tiene gli occhi chiusi, non li apre nemmeno quando aggiunge:
«Se vuoi trovare la comunità, la troverai».
Ne ho abbastanza. Chiedo al barista quanto gli devo, ma quello volta la faccia. “Che c’è, non li vuoi i miei soldi?” gli direi, se non fossi qui insieme a lui. Quello che mi preme è solo portarlo fuori da qui, via da questa gente con la quale non ho niente da spartire.
Lascio delle monete sul banco, se le farà bastare; poi prendo il bambino per una mano, torniamo fuori. Il vento ci avvolge in un attimo con la sua cappa di gelo. Tocca muoversi subito: prima partiamo, prima arriveremo.
Alzo lo sguardo all’orizzonte: c’è una sola strada, in salita. La prendiamo. E andiamo avanti fino ad arrivare a una cappelletta, incastonata all’angolo di un bivio dove spicca il nome “San Giovanni e Paolo” accompagnato da una freccia che indica la destra. La seguiamo.
E poi non lo so più, perché il vento ti ottunde e la stanchezza a un certo punto ti impedisce di pensare, continui ad andare avanti ma non ricordi più perché lo fai. So solo che, quando vedo l’insegna di legno, capisco subito di essere arrivato. Stringo il bambino a me come per rassicurarlo. «Ce l’abbiamo fatta – gli dico. – È tutto finito».
«Salve» dice un vecchio con un lungo abito bianco. È proprio di fronte a me, eppure non l’avevo visto avvicinarsi.
«Salve a lei – gli dico. – Siamo stanchi morti. Possiamo entrare?»
Senza rispondere, si volta e prende a muoversi davanti a noi. Gli andiamo dietro.
«Come si chiama?»
«Chi, mio figlio?»
Mi sembra di vederlo incespicare per un istante, come se avesse messo il piede in fallo. Continua a comminare.
«Il suo bambino dov’è?»
Quella domanda mi provoca un sorriso spontaneo. Che vuol dire? Mio figlio è con me, è proprio qui, al mio fianco. “Non lo vedi?” mi viene da dirgli. E penso: hanno messo un cieco a farci da guida?
L’istinto mi fa premere la mano sulla sua spalla, per stringerlo a me. Solo che non sento niente. La mano tocca la mia gamba, e per un paio di secondi si muove a vuoto nell’aria circostante.
«Ehi!» grido. Mi volto di scatto. E vengo assalito dal terrore più grande che un genitore possa mai provare: quello di accorgersi che il bambino che aveva con sé, all’improvviso, non c’è più.
L’uomo continua a camminare.
«Guardarsi alle spalle non serve a niente» dice. E non so perché le sue parole non mi arrivano per quello che dicono, ma per il suono che mi sembra di sentire; è lo stesso di poco fa, del barista che dice: “Illuminazione, o espiazione?”
«Aspetta, aspetta! – grido ancora. – Aspetta un attimo! Un attimo solo!»
Ma l’uomo non si ferma e io continuo a seguirlo. Mi conduce a un capanno, apre la porta, entriamo. La stanza è al buio, lo stesso buio di fuori, tranne che per un piccolo fuoco acceso in un camino al centro della parete. Il tepore mi viene subito incontro, mi sento sghiacciare. Mi guardo intorno: ci sono diverse persone nella stanza, di cui non posso distinguere le facce.
«Venga – mi dice il vecchio. Mi mostra a un ceppo di legno messo a mo’ di sedia. – Qui non conta quello che è stato fino a ora; conta solo quello che vorrà essere, da questo momento in poi. Abbandoni tutto il vecchio, lo lasci venir via».
Un istante dopo, non lo vedo più. Ma vedo. Vedo me stesso a casa, con mia moglie. C’è anche lui. È piccolo. Piange. Non ricordo nemmeno più perché. Ricordo però lei, dall’altra stanza, che mi raccomanda:
«Non farlo piangere!»
Il pianto di tuo figlio è come il trapano del dentista: picchia direttamente al centro della testa. Il fatto è che non è facile far smettere un bambino di otto anni che sta facendo il bagnetto nella vasca, in mezzo ad ammennicoli di plastica e gomma di ogni colore. Se piange, piange. Non ci possono le parole, né i giocattoli e nemmeno la musica. Hai voglia a cantare. Soprattutto quando piange già da parecchio, tanto che pure lui non ricorda nemmeno più perché ha cominciato, magari vorrebbe finirla ma ormai va avanti da talmente tanto che non se la sente di chiuderla lì di punto in bianco. Così succede che le provi tutte e alla fine quello che vuoi è solo che smetta – e che anche tua moglie, all’altro capo del corridoio, la pianti col suo ritornello – e allora non è che ci pensi, o che decidi, ed è solo quando non senti più né lui né la madre che riapri gli occhi e ti accorgi che la tua mano è bagnata – era così calda l’acqua? – e vedi che lui non risale e lo so, è assurdo, ma il primo pensiero che salta alla mente è “Ma non dovrebbe galleggiare?” E poi. E poi ti alzi, esci dal bagno, vedi tua moglie all’altra estremità della casa che finalmente si è addormentata – era sfinita, poverina, aveva un sonno arretrato di anni interi – infili la porta e ti metti in cammino.
È questo che si aspettano da me? Che gli racconti questa storia? Nessuno parla, nessuno mi guarda. Non gliela racconterò. Ma neppure mi alzerò. Non saprei dove andare. Non saprei che fare.
«Sono qui per l’espiazione» mi sento dire, senza averci pensato.
«Benvenuto» mi rispondono, tutti, ma come se fosse una voce sola. La fiamma nel camino mi sembra dare un guizzo. Come di un tizzone che s’è appena spezzato e brucerà fino a consumarsi, senza lasciare altro che cenere.

“a tutto ciò si rassegna!:i grandi sempre pronti a giudicare ma a parlare non imparano mai”!….
Grande ironia sotto insospettabile suspance!
Toni pacati tra” illuminazione _espiazione”!
Bene