Vite a poco prezzo – di Paolo Calabrò

(racconto scritto durante il Week-end da scrittori del 6 luglio 2024)

1

«Che ti ha fatto di male quell’arrosto?» le dice, mentre la osserva tagliare la fetta che ha nel piatto con una furia che conosce bene: è quella di quando c’è qualcosa che la impensierisce. Peggio: che la preoccupa.

Il locale è buio, luci basse, musica appena percettibile. Rhythm’n’blues, pensa lui, ma non ne è sicuro. Lo stesso locale che all’ora di pranzo è affollato e rumoroso, riempito dal chiacchiericcio e dallo schiamazzo della radio, la sera si fa intimo, riflessivo.

«Niente – fa lei. – Si raffredda». Sapeva che avrebbe risposto così: lei dà sempre una spiegazione di quello che fa, anche quando non la conosce. Anche quando non ce n’è una. detesta essere colta in fallo – il che a volte significa semplicemente non aver voglia di parlare di quello che veramente ha in testa. Era una delle cose che l’aveva fatto innamorare di lei: aveva sempre la battuta pronta; anche quando era talmente assurda da essere ridicola. Ridevano spesso insieme. Ma non stasera.

Lui riprende a tagliare la sua di carne: in effetti, rischia di diventare immangiabile. E intanto la guarda: lei, con gli orecchini che ondeggiano al movimento delle mani. Il cellulare sul tavolo sempre a vista: capirai, col mestiere che fa. E la copia del giornale sempre in borsa, obbligo professionale: “Chi lavora per il Gazzettino, legge sempre il Gazzettino. E non esce di casa senza”. Col tempo e l’abitudine era diventato una specie di simbolo di appartenenza e un’occasione per la pubblicità: un po’ come quei quadri della FIAT che girano solo in FIAT.

«È che…». Eccoci, pensa lui. E si prepara a concentrarsi: sua moglie lavora in cronaca al primo giornale della città, è sempre informata su tutto e fa sempre considerazioni intelligenti su tutto. Non è tipo a cui puoi rispondere con una frase fatta.

«Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo su un bracciante morto in nottata – gli dice. – È da stamattina che ci penso. Non so da dove cominciare».

Lo sapeva eccome. Lui la conosce bene: non è certo l’abbrivio che le manca. È che tutte le cose che è costretta ad affrontare ogni giorno – tutte le morti che le passano davanti – le fanno male. È dura fare la giornalista per una donna della sua sensibilità; in cronaca poi. Ma non è che si possa fare questo commento ogni volta che escono a cena.

«Io dico che è sempre meglio partire dall’inizio».

Lei lo guarda qualche secondo. Poi risponde:

«Che battuta è?»

«Non è una battuta. Non è una morte come le altre; è una “morte bianca”».

«Lo so. E allora?»

«Sai perché le chiamano così?» No, non lo sapeva. «Perché “bianca” sta per “Senza nessun responsabile”».

Che cosa odiosa, pensa lei. Come se quell’uomo fosse morto per un infarto, o un terremoto.

«In redazione stanno cercando uno stagista – gli fa. – Domani fammi avere il tuo curriculum».

2

«Le chiamano morti bianche. “Bianche” sta per “Senza nessun responsabile”. Invece, quasi sempre, la responsabilità c’è: di chi non ha preso tutte le misure di sicurezza, di chi non le ha rispettate, di chi non ha controllato. E si usa sempre parlarne al plurale: è un modo come un altro per allontanarle, per confinale in una categoria che non ci riguarda – e che speriamo non ci riguardi mai. E invece il punto è proprio questo: capita sempre a uno di noi: a uno, singolare. È sempre qualcuno in particolare a rimetterci del proprio. Questa volta è toccato a un uomo che si chiamava Salman Koothrappali, che lascia una moglie a cui abbiamo il dovere di spiegare perché suo marito è morto, se si poteva evitarlo, chi poteva fare qualcosa per venirgli in soccorso. A quella donna non possiamo dire che non ci sono responsabili, che suo marito è morto “per caso”. Abbiamo il dovere di andare fino in fondo a questa vicenda che sarebbe straziante se fosse l’unica, ma che rischia invece, dopo l’ennesima notizia di cronaca, di trovarci tutti anestetizzati, abituati all’idea che di lavoro si può morire».

Il direttore fa correre lo sguardo sulle righe da sinistra a destra e a capo, come una macchina da scrivere al contrario che assorba le lettere invece che stamparle. Alla fine toglie gli occhialini da lettura e li appoggia all sua scrivania zeppa di carte ammonticchiate, sotto i cui strati spuntano documenti ingialliti di chissà quanto tempo fa.

«Non possiamo uscire con questo» le dice.

«Perché l’ho scritto io?»

«Smettila di dire sempre che ce l’ho con te. I primi tempi era divertente. Adesso no».

«Infatti nessuno sta ridendo».

«Sai cosa vuol dire lavorare in cronaca? Mi sa di no. Allora te lo spiego io: cioè, te lo rispiego, perché questa è trentesima volta. Vuol dire: riportare informazioni. Niente commenti, niente illazioni, niente insinuazioni. Soprattutto quelle».

«Le informazioni ci sono».

«Sì – replica lui – nome, cognome, coniugato».

«Insomma, mi ha detto di scrivere un pezzo sull’ultima morte bianca e io l’ho fatto. Che vuole da me?»

Lui allunga il foglio che ha in mano verso di lei.

«Sei qui da un anno e mezzo e non hai ancora capito che cosa ci aspettiamo qui al Gazzettino». Fa una pausa. Poi aggiunge: «Per cui, facciamo così: se per stasera non mi dai un pezzo all’altezza di questo giornale, sei fuori dalla redazione. Va bene così?»

Lei non riesce a rispondere subito e, quando apre la bocca per ribattere, lui la interrompe:

«Così finalmente hai un buon motivo per dire che ti ho presa di mira».

3

Guida. Sguardo fisso davanti a sé, tiene d’occhio la strada ma il suo pensiero è alla scena di poco prima. Non è il rifiuto a farle scorrere il sangue nelle vene a quella temperatura, no: a quello ci è abituata. È la mancanza di umanità che sente di avere intorno: colleghi per i quali un morto in più o un morto in meno non è altro che materiale per arrivare allo stipendio, piegati agli ordini della proprietà come se avessero una spina dorsale di gomma. E un direttore, in particolare, che a suo avviso rappresenta il tradimento della professione: il giornalismo dovrebbe scuotere gli animi, rivelare quello che i potenti non vogliono far sapere, cercare i responsabili. E invece lui amava spegnerlo il fuoco, anziché accenderlo; come a dire: informazione, sì, ma tranquilla. Non si critichi il sistema, per carità. Niente commenti generali su una situazione socio-economica che preferisce veder morire un uomo anziché cambiare anche solo una virgola, perché funerali e risarcimento costano meno degli adeguamenti strutturali a norma. E soprattutto: niente affondi ai notabili della città; anche quando una loro negligenza poteva aver ucciso un altro bracciante sotto al sole. Per lui le prove non bastavano mai. E anche se gli avessi portato una confessione firmata, avrebbe risposto: “Se ne occupi la magistratura”.

Parcheggia l’auto nei pressi del casolare dove è avvenuto il fatto. Sembra che non ci sia nessuno; al che apre lo sportello, scende, richiude. E, voltandosi, si ritrova faccia a faccia con due uomini, a pochi metri da lei. Per la sorpresa – non di quelle che ti fanno gioire, ma piuttosto sobbalzare – fa un passo all’indietro.

«Buongiorno» dice, appoggiandosi con la schiena alla vettura.

«Buonciorno» fa uno dei due. Il capo, si vede subito; l’altro è solo un accompagnatore.

Prova a fare qualche domanda, ma senza ottenerne granché: l’uomo sembra non capire apposta, calca le parole pronunciate male per far intendere che non sarà di nessun aiuto. I due – jeans consumati, camicie fuori dai pantaloni e maniche scorciate – stanno fermi davanti a lei come un muro di pietra: ha la sensazione che, per raggiungere il casolare, dovrà passare sui loro corpi.

Lascia perdere: capisce che, se anche incontrasse qualcun altro, nessuno avrebbe il coraggio di parlare con lei. Allora ha un’idea: rimonta in auto e si allontana, abbastanza da non essere più vista né sentita, poi parcheggia in modo che non sia facile vedere la macchina e torna a piedi con discrezione, approfittando della macchia per non farsi notare. Così arriva al casolare e riesce a scattare qualche foto con il telefonino. Pensando al peggio, le trasmette via mail a se stessa: ma per fortuna il peggio non accade, e dopo meno di un’ora è di nuovo in viaggio verso la città. Ha la mente piena di idee; non potendo prendere appunti sul taccuino, registra con il cellulare un lungo messaggio vocale che manda al caporedattore. Poi lo chiama.

«Oggi sono in ferie» dice lui.

«Tu non sei mai in ferie».

«Cavolo se hai ragione». Fa una pausa, poi dice: «Hai trenta secondi».

«Cinque minuti al tavolo ad ascoltarmi e ti pago la cena».

«È presto per cenare. È l’ora dell’aperitivo».

«Hai ragione. Ma quando avrò finito di spiegarti quello che ho in mente, ti verrà una gran fame».

4

«Il direttore non lo approverà mai» dice lui, sorseggiando un daiquiri.

«Per questo l’ho portato a te».

«Forse ti è sfuggito che è il direttore ad approvare i pezzi».

«Ma, dico: hai ascoltato il mio messaggio?» 

«Più di una volta: c’era troppo rumore di fondo».

«Sì, finestrino aperto, scusami: faceva caldo. Però è chiaro il punto».

«Sì, certo: le misure di sicurezza sono minime e lì si rischia di farsi male a ogni passo. Ma come facciamo a sostenerlo?»

«Abbiamo le foto».

«Sono a bassa risoluzione, alcune sfocate, tutte con pochissima luce».

«Gli interni erano bui e io dovevo fare in fretta».

«È questo che diciamo ai lettori del giornale?»

«No – fa lei – gli diciamo la verità».

«Sarebbe?»

«Che in quelle condizioni è facile morire “sul lavoro”».

«Non possiamo dimostrarlo».

«Ma nemmeno dobbiamo. Noi solleviamo la questione, saranno le autorità competenti a indagare».

«Il tuo è proprio il tipo di articolo che il direttore non vuole vedere sulla sua scrivania».

«Questo è compito tuo. Dici sempre che non si diventa caporedattore per caso» dice lei, alzandosi.

«E la cena?»

«Tu preoccupati di far uscire il pezzo domani mattina. Poi ne riparliamo».

5

La mattina dopo l’articolo esce in anteprima nella versione web del giornale e si vede subito che va alla grande: il contatore delle visualizzazioni si incrementa a ciclo continuo, email su email arrivano alla redazione con dubbi, domande, alcune con qualche oscenità, i commenti online non sono mai stati tanti. Il motivo è semplice: nell’articolo si spiega che le condizioni dei lavoratori di quell’azienda sono pessime e che a rischio non è solo la sicurezza, ma anche la decenza e la dignità delle persone come Salman Koothrappali. E che in tutte queste cose non può non essere implicata la proprietà aziendale. Non puoi veramente dire che non ne sapevi niente, se l’azienda è tua. Per qualche motivo – per un’ansia mai placata di giustizialismo, o perché certe riflessioni stimolano nella gente un autentico desiderio di giustizia – quell’articolo piace. Se ne parla. Si diffonde. E, in serata, arriva la telefonata del caporedattore.

«Troppo tardi – dice lei – sono a cena con mio marito».

«Visto il risultato, mi dovrai più di una cena. Ma non ti chiamo per questo. Il direttore vuole vederti».

«Adesso?»

«Ti risulta che, quando chiama, prenda appuntamenti?»

Lei chiude la telefonata e alza gli occhi verso il marito.

«Ho già capito. Vai – le dice. – Tanto lo so che il tuo vero marito è il giornale».

«Non è vero» dice, balbettando.

«Sì invece. Solo che lui non ti ama come ti amo io».

Mette un bacio nella mano e le accarezza la guancia.

«Tornerò vincitrice» fa lei.

«Lo sei già».

*

«Ecco la nostra giornalista modello – dice il direttore vedendola entrare: – bella, brava, Gazzettino sempre in borsa…»

L’ironia non era il suo forte. Ma lei non è stata convocata lì per farsi quattro risate. Il direttore vuole ricucire: non può non ammettere il successo della strategia, e vuole ingraziarsela per il futuro. La seconda, soprattutto. Gli farà comodo avere qualcuno che sappia accattivarsi l’opinione pubblica; qualcuno in grado di prendersi la colpa, se le cose vanno male.

«Mi ha fatto chiamare».

«Sì, certo. Il tuo pezzo è andato bene; ero scettico, lo ammetto, ma mi sono ricreduto. Ne vorrei un altro per domani».

Lei lo guarda e lo vede come non lo ha mai visto prima: un uomo privo di attrattive, che con ogni probabilità deve la sua posizione unicamente alla capacità di compiacere, quasi sicuramente innata, e che fuori da quelle mura smette istantaneamente di essere il direttore del Gazzettino per tornare a essere chi è davvero: nessuno.

«Mi dispiace. Non posso».

Lui si protende sulla scrivania, appoggiando gli avambracci su cumuli di carte, e dice:

«Che significa?»

«Significa che mi licenzio – dice lei. – E, per inciso: questo – dice ancora, prendendo con una mano il giornale che ha in borsa – questo non è il Gazzettino».

Poi si volta ed esce dalla stanza.

*

In ascensore, riprende a spulciare gli annunci dei concorsi: molti per militari, pochi per ruoli amministrativi. Questo mondo le sembra aver sempre più voglia di guerra che di ordine. Dopo un po’, lo sguardo le cade su un annuncio in particolare:

ISPESL, Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro – 1 posto di istruttore direttivo – Laurea in giurisprudenza, scienze politiche o economia.

Ecco, pensa. Basta, scrivere sul giornale per raccontare le cose brutte che succedono. È tempo di cominciare a evitarle.

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