Una folla è radunata attorno a un furgone con il muso schiacciato e il parabrezza distrutto. Un bisogno l’attrae, e in un attimo, Patty emerge davanti alle lamiere contorte di un’auto. Al suo fianco solo facce sgomente, e dietro curiosi che premono per guardare. Qualcuno piange. Un uomo sanguinante è steso sul marciapiede, un’anziana parla con Dio.
«Avete chiamato l’ambulanza?» urla qualcuno.
«Serviranno i vigili del fuoco per estrarre il corpo!» commenta un anziano.
«Quale corpo?» domanda Patty. Nessuno risponde.
Un tizio brufoloso parla al telefono: «L’auto è irriconoscibile».
«È una Cinquecento crema» interviene Patty. Lui si volta: «Come ha detto?»
«Non ho parlato» dice un anziano calvo. Lui gli lancia uno sguardo ombroso.
«Sono stata io» insiste Patty.
«Forse è una Micra» Ipotizza l’anziano.
«No, no. Ascoltate. È una Cinquecento, vi dico!»
Le sirene si avvicinano. «Signori allontanatevi, state intralciando» un poliziotto allontana i curiosi, un vigile del fuoco gli comunica la targa, Patty lo tocca insistentemente al braccio: «Guardi che l’auto è mia. Ho i documenti nella borsa. Le dispiace prenderla? Così avviso l’ufficio del mio ritardo». Lui non reagisce, lei lo strattona più forte.
«Attenzione all’ambulanza» grida l’autista. Patty, cocciuta, non si sposta. Un brillare di luci blu la imprigiona, i soccorsi si susseguono disperati, uno sportello sbatte improvviso e dietro di lei un medico si muove frenetico.
«Mi scusi, mi serve…» L’uomo, come se niente fosse, corre sulla scena seguito dal barelliere. Patty stizzita tira un calcio all’aria, poi si piega sul vigile del fuoco intento a tagliare parti della lamiera accartocciata. Il fumo le irrita gli occhi. Trattiene il respiro, poi urla con tutta la forza che ha in gola: «Guardi che dentro non c’è nessuno, l’auto è mia. Forse ero in farmacia quando è successo». Sbruffa, si sporge ancora, fino a sfiorargli l’orecchio. «Se potesse recuperare la mia borsa, è lì, sul sedile del passeggero…» Prende fiato esausta.
Di nuovo nessuna risposta. Batte un pugno sul tettuccio e indietreggia fino a sedersi sul marciapiede. L’auto si muove con un tonfo e una sagoma ballonzola. Lo sguardo dei curiosi scivola via dai bottoni della giacca per rintanarsi tra i ciuffi d’erba nelle crepe del cemento. Uno stridio metallico e la lamiera cede. Patty attende dietro al pompiere. Lo vede esitare, poi sospirare, abbandonare il caschetto a terra e curvare la schiena. Il medico gli appoggia mesto una mano sulla spalla e si fa spazio. Un’impalpabile sensazione si leva dagli sguardi funesti. Una zaffata perversa raggiunge Patty che sgrana gli occhi e trema. Si aggrappa con le mani al lampione e sotto i suoi piedi la terra frana. Un’ombra minacciosa la inghiotte.
Una voragine le si apre intorno, nessuno sembra notarla, grida spaventata e poi cade giù senza respiro. Qualcosa la rallenta e quando tocca il fondo con la punta dei piedi c’è solo un silenzio ovattato. Una scintilla nel nulla oscuro e un chiarore si sparge. Improvvise, file di casette ordinate prendono vita a tinte pastello. Nel mezzo, una strada deserta prosegue in lontananza. Immagini annebbiate del palazzo fatiscente affacciato sul viale trafficato si sovrappongono. L’insegna della vecchia farmacia dovrebbe lampeggiare desolante tra una serie di edifici scrostati a sinistra. Pochi metri più in là, anche un bar antiquato sembra essere scomparso. Ricordi confusi di una ringhiera arrugginita e di un giardinetto spoglio svaniscono davanti a una balaustra in legno e ai balconi ornati di fiori. Creature luminose e filiformi si sollevano in aria leggiadre. Tra loro, un piccolo saluta.
«Non è permesso salutare le sagome pallide» lo riprende sua madre.
Un brivido intenso e una vertigine la dominano. I ricordi frammentati riemergono come diapositive in bianco e nero: il taglio profondo, la benda frettolosa. I minuti che scorrono impietosi, il ritardo che si accumula. Poi lo sgomento per il sangue sui jeans nuovi. Guarda, la ferita è scomparsa. Un urto violento e uno scorrere di lame è quel che vede prima che il sole vada in frantumi.
Uno schianto riecheggia lontano, seguito da un grido agghiacciante. Un vento gelido e improvviso la travolge. Si fa scudo con le mani, tenta la fuga, poi spalanca la bocca alla ricerca spasmodica di aria, le forze l’abbandonano, cade sulle ginocchia inerme e uno spiraglio si apre. Un battito forte la scuote e un pulsare sommesso risuona nelle tempie.
«È ancora viva! Forza, forza!» urla il medico. Il vigile del fuoco riprende il suo posto.
«Fatto, fatto!» si sbraccia. «Tiriamola fuori».
Il viso nascosto dietro ai lunghi capelli rossi, le mani diafane sui jeans macchiati. Un’asta metallica, tranciata di netto, conficcata tra il fianco e il bacino, una poltiglia scura che si riversa sulla tappezzeria. Patty è attirata lì, un desiderio la tormenta. Il medico preme con forza sul petto. Una fitta al cuore la pungola come un dolore non sopito. Un’altra pressione e la mano penzola dalla barella, un formicolio cresce e la fasciatura sporca le appare come una condanna a morte. Sopraffatta, scruta tra i volti anonimi la traccia della sua esistenza. Ma non c’è sguardo acceso su di lei. Un fremito sale dalle gambe molli, prude sulla schiena fino ai capelli elettrici. Muta e sorda, implora un segnale dalla ragazza incosciente, tra le ciglia brilla una lacrima che scivola sulla guancia. Il battito cresce rabbioso. Poi improvviso, un vortice la cattura. Rapita, Patty si arrende e scompare. La bocca ha un fremito. Il corpo freme.
Una voce tuona sopra alle altre: «Fate presto, la ragazza se ne sta andando». Il riverbero della sirena pugnala l’aria e si perde lungo la strada.
Un riflesso impercettibile sfugge agli occhi accecati, poi un’ombra si compone e attraversa silenziosa le lamiere contorte, ondeggia incerta e frusciante fra gli spettatori angosciati, un richiamo sconosciuto è in attesa La farmacia e il bar si dissolvono e le casette pastello sporgono sul viale alberato. Un filo dorato si tende dalla sua veste e scorre fino al cono blu l’afferra, lo strattona, ma non cede, l’ombra in pena interroga lo spazio desolato. Una sorgente l’accoglie, strani segni luminosi scorrono su di lei, chiude gli occhi e salta.
Mi chiamo Michela Santini, ho 51 anni e 17 di spirito, perché non ho nessuna voglia di crescere. Sono nata a Pesaro, dove vivo e lavoro. Ho un marito e due figli maschi, un’azienda familiare di termoidraulica che gestisco con i miei fratelli. Sono circondata da maschi, mia madre ha imparato a coordinare una truppa, io ci provo. Amo la mia città, con un piede sul mare e uno sugli Appennini, un orecchio alle Marche e uno alla Romagna. Metà sospettosa e metà amichevole, mi piace isolarmi e poi cercare la compagnia e di nuovo stare sola, per leggere soprattutto. Non so chiedere aiuto, troppo timida e orgogliosa, non so guardarmi dentro, piuttosto mangio e così quattro anni fa ho ascoltato il consiglio di chi mi diceva di scrivere e non ho più smesso. Veramente schiaccio tasti o scivolo dita sullo schermo. Mi piacciono le penne, ma le uso per fare liste che poi non leggo. Faccio borse all’uncinetto da due anni perché mi piace la moda a modo mio, ascolto audiobook perché i lavori domestici sono odiosi, cucino così così o benissimo, dipende dai giorni, però non ho mai ucciso nessuno. Nel dubbio, ordino una pizza. Amo l’arte dai tempi della scuola, mi circonderei di quadri, passerei ore a osservare Caravaggio e il giorno dopo Van Gogh e dopo ancora Tamara de Lempicka. Leggo soprattutto gialli, guardo in TV soprattutto gialli. Il resto lo annuso dalle ultime pagine e vado su Wikipedia, poi decido.
Bellissimo… brava 👏